Scritto da  2014-10-24

La giornata della memoria

La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista
La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista Centro Furio Jesi, Casalecchio di Reno - Grafis, 1994

Colonialismo / La proposta dello storico Del Boca
La giornata della memoria

di Angelo Del Boca

Il 22 maggio 2006 il quotidiano la Repubblica pubblicava, su due intere pagine e con un richiamo in prima, un articolo di Pao­lo Rumiz su uno dei peggiori crimini consumati in Etiopia dalle truppe fasciste. L’articolo raccontava, in sintesi, ciò che lo storico Matteo Dominioni aveva scoperto nei dintorni di An­kober, seguendo l’itinerario indicato da una mappa dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito.
 
Si tratta di un’immen­sa caverna nella quale alcune migliaia di etiopici, partigiani com­battenti ma anche donne e bambini, si rifugiarono il 9 aprile 1939, durante uno dei frequenti rastrellamenti ordinati da Amedeo di Savoia e dal comandante delle truppe, generale Ugo Cavallero.
 
Per snidare gli arbegnuoe (i partigiani) dalla caverna, il plo­tone chimico della divisione “Granatieri di Savoia” utilizzò i lanciafiamme e, quando queste armi si rivelarono inefficaci, im­piegò l’artiglieria, con bombe caricate a iprite e arsine. Tutta­via, occorsero tre giorni di intensi bombardamenti per elimi­nare “il focolaio di rivolta”. Secondo i documenti militari italia­ni, i morti “accertati” furono 800, ma gli etiopici, che Dominioni ha interrogato nella regione, parlano invece di migliaia di uccisi. Cifra convalidata anche da ciò che di macabro e di terrificante Dominioni ha rinvenuto nella sua ispezione della caverna.
 
L’episodio, certamente tra i più gravi accaduti in Etio­pia (ma neppure il più angoscioso, se confrontato con le stra­gi di Addis Abeba del 19-21 febbraio 1937 e con la totale di­struzione della popolazione della città conventuale di Debrà Libanòs), è il risultato di una di quelle “operazioni di grande polizia coloniale” che hanno caratterizzato il periodo del­la presenza italiana in Etiopia. Dopo aver sconfitto in 7 mesi, con una serie di battaglie campali, gli eserciti dell’imperatore Hailè Selassiè, Mussolini era persuaso di aver concluso le ope­razioni belliche. Invece, non era che all’inizio. Per cinque anni avrebbe dovuto contrastare una generale e insidiosa guerri­glia, ricorrendo a una controguerriglia fra le più feroci e cruen­te. In effetti, gli italiani non riuscirono mai a conquistare tutto l’impero del Negus.
 
L’Etiopia è il paese che maggiormente ha pagato, in termini di vite umane, le aggressioni dell’imperialismo italiano. Ma la repressione è stata durissima anche in altre colonie africane, co­me la Libia e la Somalia. Nel Memorandum presentato dal gover­no imperiale etiopico al consiglio dei ministri degli esteri, riunitosi a Londra nel settembre del 1945, si parlava di 760mila morti, facen­do riferimento solo alle perdite subite tra il 1935 e il 1943 e non a quelle della prima guerra italo-abissina del 1895-96. Alcuni storici libici e lo stesso governo di Gheddafi indicano, dal canto loro, in mezzo milione gli uccisi tra il 1911 e il 1943. Si tratta di due cifre non scientificamente documentate.
 
Tuttavia, i morti etiopici accerta­ti non sono meno di 350mila e quelli libici superano certamente i 100mila. Nelle repressioni ordinate in Somalia dal quadrumviro fa­scista Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, tra il 1926 e il 1928, sono stati uccisi almeno 20mila somali. Gli eritrei non hanno subito dure repressioni (se si eccettua quella del 1894 contro il degiac Batha Hagos), ma hanno perso almeno 30mila ascari nelle campa­gne di conquista libiche, somale ed etiopiche. Tirando le somme, i governi di Crispi, Giolitti e Mussolini sono responsabili della mor­te di 500mila africani.
 
L’articolo di Paolo Rumiz sulla “foiba abissina” ha suscitato commenti e proposte di notevole rilievo. Il giuri­sta Antonio Cassese, ad esempio, suggeriva di seguire l’esempio della Germania, che ha reagito al nazismo scavando a fondo nel proprio passato recente, facendolo conoscere alle giovani gene­razioni, erigendo monumenti e musei alla memoria. Egli proponeva, inoltre, di creare una commissione di storici che esaminasse ciò che è avvenuto in Etiopia (e nelle altre colonie italiane, aggiungia­mo noi) e preparasse «una documentazione e un’analisi rigorose».
 
In seguito alla proposta di Antonio Cassese (apparsa sulla Repubblica del 23 maggio), noi chiedevamo ospitalità allo stes­so giornale per avanzare un ulteriore suggerimento: quello di isti­tuire una Giornata della memoria per i 500mila africani che l’Ita­lia crispina, giolittiana e fascista hanno sacrificato nelle loro sciagurate campagne di conquista. Nello stesso giorno (27 maggio) in cui Nello Ajello esponeva la nostra proposta sul giornale romano, scrivevamo una lettera al ministro degli affari esteri, Massimo D’Alema, per metterlo al corrente della no­stra iniziativa.
 
La scelta di D’Alema non era casuale o solo dettata dalla stima che nutriamo per lui. In realtà egli è stato il primo – e unico – capo del governo italiano che, dinanzi al mo­numento ai martiri di Seiara Sciat, nel corso del suo viaggio a Tripoli del 1° dicembre 1999, ammise in modo esplicito la col­pa coloniale. Contiamo sulla sua sensibilità e capacità di leggere la storia, anche quella che si vorrebbe rimuovere a tut­ti i costi.
 
Nella lettera a D’Alema, facevamo osservare che gli attua­li rapporti con le nostre ex colonie non sono sereni, a cominciare da quelli con Tripoli, turbati dal mancato risarcimento dei danni di guerra. Una ricerca a tutto campo, eseguita con me­todi scientifici, sui crimini commessi in Africa, non potrebbe che allontanare dal nostro paese il sospetto che si voglia rimuovere il passato e negarne gli aspetti più deteriori, come sta facendo da tempo il Giappone. Ciò potrebbe anche agevolare la soluzione del problema del contenzioso, che si trascina da anni.
 
Quanto alla Giornata della memoria per i 500mila africani uccisi, ci sembra che essa abbia un valore non soltanto simboli­co. Noi siamo convinti che potrebbe avere riflessi non effi­meri su popolazioni che non soltanto lottano contro la povertà e 1’Aids, ma anche cercano disperatamente anche una propria identità. Se questa Giornata venisse fatta propria dal nostro governo, – scrivevamo nella lettera a Massimo D’Alema – si raggiungerebbe anche l’obiettivo di riconoscere ufficialmente le colpe e gli orro­ri del nostro passato coloniale nella maniera più esplicita, nobi­le e definitiva.

Articolo tratto da Nigrizia del 30 giugno 2006

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(A. Bergonzoni)