Obsolescenza programmata… il nome sembra un concetto di difficile comprensione, ma in realtà è un qualcosa con cui abbiamo molto spesso a che fare. Avete notato come gli oggetti di qualsiasi tipo si rompano dopo un tot. di anni? Avete notato che un elettrodomestico, un pc, uno smartphone si rompono proprio quando avete finito di pagarlo a rate o quando è scaduta la garanzia? Nulla accade per caso, perchè c’è qualcuno che programma la perdita di valore o la rottura di un oggetto proprio mentre è stato progettato.
Di obsolescenza programmata non se ne sente parlare spesso per il semplice motivo che il nostro sistema economico si basa sulla produzione di cose inutili e di qualità scadente tramite il consumo irreversibile delle risorse, causando una mole enorme di rifiuti innescata dalla corsa "all’ultimo modello" di un determinato prodotto. Un consumatore informato è un pericolo per l’intero sistema che si nutre sulla produzione senza altro scopo se non quello di vendere e accumulare ricchezza.
Ma c’è qualcuno che ne parla e lo spiega accuratamente come in questo documentario di Cosima Dannoritzer che, partendo da un comunissimo caso di stampanti che si bloccano, ripercorre la storia dell’obsolescenza programmata, dalla teorizzazione ufficiale di Bernard London nel 1932 come un modo per combattere la disoccupazione, alla sua applicazione nei metodi di produzione da parti di grandi brand come la Apple e alle grandi discariche di oggetti che potrebbero essere ancora riparati e utilizzati, ma che finiscono con l’inquinare le parti più povere del mondo.
Una speranza? La lampadina di Livermore, accesa per la prima volta il 18 giugno 1901 che risplende ancora oggi dopo più di un secolo di glorioso servizio ininterrotto mentre nel frattempo si sono rotte due telecamere che la "sorvegliavano"; prova del fatto che se davvero si vuole, si possono progettare oggetti durevoli e meno inquinanti.
Fa riflettere. Molto.
1931, giustiziato il «leone del deserto» libico
Anche allora l’Italia preferì mentire
IL DOCUMENTO
Ordine del giorno del generale Graziani
«Omar el Mukhtar, il capo politico e militare dei ribelli, è caduto nella rete che da diciassette mesi sul Gebel cinquanta volte si era aperta e chiusa per afferralo: c’è caduto alfine!
E non è fortuita circostanza: è la tenacia, la fede, il valore, lo spirito di sacrificio dei comandanti e delle truppe che hanno trionfato!
È il metodo che si è venuto affinando in tutti gli atti dell’operazione bellica, dall’esplorazione aerea a quella terrestre, dal concetto di manovra alla esecuzione nel campo tattico!
È lo strumento che è stato lubrificato in tutte le sue articolazioni! È l’armonica azione dell’aviazione, dei battaglioni, degli squadroni!
Ufficiali, soldati, Siamo a una svolta decisiva! Siamo alla frusta! Avanti, per la grandezza d’Italia!»
Non furono «la tenacia, la fede, il valore, lo spirito!» come scrisse il generale Rodolfo Graziani nel suo enfatico messaggio alle truppe. Fu, più semplicemente, un delatore a consentire l’arresto del «leone del deserto» Omar El Mukhtar, l’eroe nazionale libico. È quanto emerge, quasi 80 anni dopo, dall’esame delle carte conservate dai familiari di Giuseppe Franceschino, il giudice istruttore del Tribunale del Corpo d’Armata territoriale di Bengasi, cioè della corte che, dopo un processo-farsa, condannò El Mukhtar all’impiccagione.
Era il 1931. Ma il fantasma di El Mukhtar è comparso più di una volta nella storia tormentata dei rapporti italo-libici. Nel 1981 il colossal americano «Il leone del deserto» - dove la parte di El Mukhtar era interpretata da Antony Quinn - fu denunciato per «vilipendio alle forze armate» e gli italiani poterono vederlo in modo semiclandestino solo nei circuiti alternativi. Da allora molte cose sono cambiate. Tanto che solo l’agenzia libanese As Safir ha registrato, nelle cronaca della visita di Berlusconi a Tripoli, una stretta di mano tra Berlusconi e il figlio del «leone del deserto».
Omar el Mukthar fu catturato l’11 settembre del 1931 durante un trasferimento. Un episodio chiarisce a che genere di processo fu sottoposto: alla fine fu condannato anche il suo avvocato, il capitano Roberto Lontano, colpevole di aver difeso il suo assistito con troppo zelo. La condanna a morte mediante impiccagione fu eseguita il 16 settembre, alla presenza di 20.000 deportati libici. Pochi mesi dopo la ribellione cessò definitivamente.
Qualcuno (fra cui il gerarca Emilio De Bono) avanzò il dubbio che la cattura fosse stata consentita dal tradimento di un altro capo della rivolta. Ma all’ipotesi non fu mai trovata alcuna conferma. Quella che, oggi, arriva dalle carte del giudice istruttore e in particolare dai verbali dell’interrogatorio di Hamed Bu Seif, un trentacinquenne mulesem aul (sottotenente) del dor di Abid, che comparve davanti al magistrato il 12 maggio 1931, poco più di tre mesi prima dell’arresto.
L’incipit racconta non solo l’avvio della collaborazione da parte di Hamed Bu Seif ma anche di altri rivoltosi: «Confermo quanto ho già dichiarato... nulla ho fatto contro il Governo, sottomettendomi al quale, son sicuro di avere la tranquillità... Mi sono sottomesso perché ho visto che Saad Fannusc sottomessosi è stato lasciato tranquillo e, al Dor gli altri che hanno intenzione di sottomettersi, vogliono prima vedere come sono trattato anch’io».
Dunque, l’avvio di una azione di gruppo, di cui Bu Seif era solo l’avanguardia. L’interrogatorio, ripreso anche nei giorni seguenti, produceva molte informazioni sull’organizzazione della resistenza: armamenti, organigrammi e una raffica di decine di nomi con le rispettive azioni compiute, sino a riempire 25 fitte pagine di verbale. In particolare colpiscono molti passaggi riguardanti Omar el Mukhtar:
« ...il drappello che è a guardia personale di Omar Mukhtar non ha caimacan, ma un Bimbasci comandar: egli è Bubacher Zigri....si distinguono dagli altri perché: sono tutti della stessa cabila di Omar e perchè vestono barracani di seta, e tachie rosse... Quando la carovana si muove ...poiché con essa si muove anche Omar Mukhtar è scortata anche dai suoi cavalieri... Omar non cavalca un cavallo sempre dello stesso colore, quando lo lasciai cavalcava un cavallo bianco... la tenda di Omar Mukhtar è a 4 teli, italiana, ed è come quella che adoperiamo noi ascari. Egli non ha più la tenda conica...».
Tutte notizie utili a individuare il capo guerrigliero e la sua guardia del corpo, magari dall’alto di una ricognizione aerea.
Ignoriamo che fine abbia fatto Hamed Bu Seif e se sia mai stato processato, ma sembra decisamente improbabile che il comando militare italiano abbia lasciato cadere una così rilevante offerta di collaborazione che, probabilmente, riguardava un gruppo non piccolo. C’è da credere che la promessa di impunità sia stata mantenuta. La pelle del «leone del deserto» valeva moltissimo.
Benché ultrasessantenne divenne rapidamente il capo indiscusso della resistenza libica e si guadagnò una fama di invincibilità. Per fermarlo le truppe di Graziani compirono atrocità al limite del genocidio, deportando oltre 80.000 libici in campi di concentramento. Lo stesso Rodolfo Graziani, riconobbe che si trattava di misure di eccezionale crudeltà (e, detto da lui...). Nel gennaio 1931, l’oasi di Kufra venne presa con un eccezionale spiegamento di forze (20 aerei, 300 autocarri, 7.000 cammelli), ma la speranza di catturare Omar andò delusa. In settembre il «dor» era ridotto in condizioni disperate, ma, data la vastità del territorio, non era facile dire per quanto tempo ancora sarebbe durata la caccia. Inoltre, esisteva un rischio molto serio: Omar -già sfuggito alla cattura infinite volte- avrebbe potuto superare il reticolo di filo spinato e raggiungere l’Egitto con parte dei suoi. Lì sarebbe stato imprendibile e avrebbe potuto riorganizzarsi. Un rischio che il governo fascista -in lotta col tempo- doveva assolutamente evitare.
Articolo di Aldo Giannuli tratto da "L'Unità" del 4 settembre 2008
Colonialismo / La proposta dello storico Del Boca
La giornata della memoria
di Angelo Del Boca
Il 22 maggio 2006 il quotidiano la Repubblica pubblicava, su due intere pagine e con un richiamo in prima, un articolo di Paolo Rumiz su uno dei peggiori crimini consumati in Etiopia dalle truppe fasciste. L’articolo raccontava, in sintesi, ciò che lo storico Matteo Dominioni aveva scoperto nei dintorni di Ankober, seguendo l’itinerario indicato da una mappa dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito.
Si tratta di un’immensa caverna nella quale alcune migliaia di etiopici, partigiani combattenti ma anche donne e bambini, si rifugiarono il 9 aprile 1939, durante uno dei frequenti rastrellamenti ordinati da Amedeo di Savoia e dal comandante delle truppe, generale Ugo Cavallero.
Per snidare gli arbegnuoe (i partigiani) dalla caverna, il plotone chimico della divisione “Granatieri di Savoia” utilizzò i lanciafiamme e, quando queste armi si rivelarono inefficaci, impiegò l’artiglieria, con bombe caricate a iprite e arsine. Tuttavia, occorsero tre giorni di intensi bombardamenti per eliminare “il focolaio di rivolta”. Secondo i documenti militari italiani, i morti “accertati” furono 800, ma gli etiopici, che Dominioni ha interrogato nella regione, parlano invece di migliaia di uccisi. Cifra convalidata anche da ciò che di macabro e di terrificante Dominioni ha rinvenuto nella sua ispezione della caverna.
L’episodio, certamente tra i più gravi accaduti in Etiopia (ma neppure il più angoscioso, se confrontato con le stragi di Addis Abeba del 19-21 febbraio 1937 e con la totale distruzione della popolazione della città conventuale di Debrà Libanòs), è il risultato di una di quelle “operazioni di grande polizia coloniale” che hanno caratterizzato il periodo della presenza italiana in Etiopia. Dopo aver sconfitto in 7 mesi, con una serie di battaglie campali, gli eserciti dell’imperatore Hailè Selassiè, Mussolini era persuaso di aver concluso le operazioni belliche. Invece, non era che all’inizio. Per cinque anni avrebbe dovuto contrastare una generale e insidiosa guerriglia, ricorrendo a una controguerriglia fra le più feroci e cruente. In effetti, gli italiani non riuscirono mai a conquistare tutto l’impero del Negus.
L’Etiopia è il paese che maggiormente ha pagato, in termini di vite umane, le aggressioni dell’imperialismo italiano. Ma la repressione è stata durissima anche in altre colonie africane, come la Libia e la Somalia. Nel Memorandum presentato dal governo imperiale etiopico al consiglio dei ministri degli esteri, riunitosi a Londra nel settembre del 1945, si parlava di 760mila morti, facendo riferimento solo alle perdite subite tra il 1935 e il 1943 e non a quelle della prima guerra italo-abissina del 1895-96. Alcuni storici libici e lo stesso governo di Gheddafi indicano, dal canto loro, in mezzo milione gli uccisi tra il 1911 e il 1943. Si tratta di due cifre non scientificamente documentate.
Tuttavia, i morti etiopici accertati non sono meno di 350mila e quelli libici superano certamente i 100mila. Nelle repressioni ordinate in Somalia dal quadrumviro fascista Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, tra il 1926 e il 1928, sono stati uccisi almeno 20mila somali. Gli eritrei non hanno subito dure repressioni (se si eccettua quella del 1894 contro il degiac Batha Hagos), ma hanno perso almeno 30mila ascari nelle campagne di conquista libiche, somale ed etiopiche. Tirando le somme, i governi di Crispi, Giolitti e Mussolini sono responsabili della morte di 500mila africani.
L’articolo di Paolo Rumiz sulla “foiba abissina” ha suscitato commenti e proposte di notevole rilievo. Il giurista Antonio Cassese, ad esempio, suggeriva di seguire l’esempio della Germania, che ha reagito al nazismo scavando a fondo nel proprio passato recente, facendolo conoscere alle giovani generazioni, erigendo monumenti e musei alla memoria. Egli proponeva, inoltre, di creare una commissione di storici che esaminasse ciò che è avvenuto in Etiopia (e nelle altre colonie italiane, aggiungiamo noi) e preparasse «una documentazione e un’analisi rigorose».
In seguito alla proposta di Antonio Cassese (apparsa sulla Repubblica del 23 maggio), noi chiedevamo ospitalità allo stesso giornale per avanzare un ulteriore suggerimento: quello di istituire una Giornata della memoria per i 500mila africani che l’Italia crispina, giolittiana e fascista hanno sacrificato nelle loro sciagurate campagne di conquista. Nello stesso giorno (27 maggio) in cui Nello Ajello esponeva la nostra proposta sul giornale romano, scrivevamo una lettera al ministro degli affari esteri, Massimo D’Alema, per metterlo al corrente della nostra iniziativa.
La scelta di D’Alema non era casuale o solo dettata dalla stima che nutriamo per lui. In realtà egli è stato il primo – e unico – capo del governo italiano che, dinanzi al monumento ai martiri di Seiara Sciat, nel corso del suo viaggio a Tripoli del 1° dicembre 1999, ammise in modo esplicito la colpa coloniale. Contiamo sulla sua sensibilità e capacità di leggere la storia, anche quella che si vorrebbe rimuovere a tutti i costi.
Nella lettera a D’Alema, facevamo osservare che gli attuali rapporti con le nostre ex colonie non sono sereni, a cominciare da quelli con Tripoli, turbati dal mancato risarcimento dei danni di guerra. Una ricerca a tutto campo, eseguita con metodi scientifici, sui crimini commessi in Africa, non potrebbe che allontanare dal nostro paese il sospetto che si voglia rimuovere il passato e negarne gli aspetti più deteriori, come sta facendo da tempo il Giappone. Ciò potrebbe anche agevolare la soluzione del problema del contenzioso, che si trascina da anni.
Quanto alla Giornata della memoria per i 500mila africani uccisi, ci sembra che essa abbia un valore non soltanto simbolico. Noi siamo convinti che potrebbe avere riflessi non effimeri su popolazioni che non soltanto lottano contro la povertà e 1’Aids, ma anche cercano disperatamente anche una propria identità. Se questa Giornata venisse fatta propria dal nostro governo, – scrivevamo nella lettera a Massimo D’Alema – si raggiungerebbe anche l’obiettivo di riconoscere ufficialmente le colpe e gli orrori del nostro passato coloniale nella maniera più esplicita, nobile e definitiva.
Articolo tratto da Nigrizia del 30 giugno 2006
ADDIS ABEBA - Fucilati dopo la resa o avvelenati con i gas nella grotta dove si erano rifugiati. Mille morti, come minimo. Peggio di Marzabotto, perché non fu rappresaglia. Peggio di Srebrenica perché morirono anche donne, vecchi e bambini. Unico paragone possibile, le foibe, ma con un' esecuzione concentrata in un unico luogo.
Le prove di un efferato crimine italiano riemergono in Etiopia, 70 anni dopo la proclamazione dell' impero, gettano luce sinistra su un conflitto che la nostra memoria ancora rimuove o traveste da scampagnata coloniale. Le ha trovate in queste settimane Matteo Dominioni, 33 anni, dottore di ricerca dell'università di Torino. Prima le carte, documenti inoppugnabili. Poi le ossa umane, nella grotta dell' infamia, ancora avvolte da fosche leggende. La conferma definitiva di quanto avvenne in quelle ore tra il 9 e l'11 aprile 1939.
Tutto comincia per caso, con un pacco di telegrammi dimenticati in un faldone dal titolo «Varie» all'ufficio storico dello Stato maggiore dell' Esercito. Dentro, un manoscritto senza firma, con una mappa della zona di Debra Brehan, 100 km a Nord di Addis Abeba, nell' alto Scioa. Il contenuto, confermato da altri documenti, è agghiacciante. Una carovana di «salmerie» dei partigiani di Abebè Aregai, leader del movimento di liberazione, si è rifugiata in una grotta dopo essere stata individuata dall' aviazione italiana, e non accenna ad arrendersi pur essendo circondata da un numero soverchiante di uomini.
La sproporzione è totale: le «salmerie» della resistenza etiope sono in prevalenza vecchi, donne e bambini, parenti degli uomini in armi, che garantiscono la cura dei feriti e il sostentamento dei partigiani alla macchia (ad Adua, mezzo secolo prima, dietro ai 100 mila combattenti c' erano 80 mila persone di supporto). L' ordine del Duce è perentorio: stroncare la ribellione che perdura sulle montagne a tre anni dall' ingresso di Badoglio ad Addis Abeba. Ma stavolta stanare i ribelli è impossibile, così il 9 aprile la grotta viene attaccata con bombe a gas d' arsina e con la micidiale iprite che devastò le trincee della Grande Guerra. L' Italia ha firmato il bando internazionale di queste armi letali, ma ormai le usa in grande stile su autorizzazione di Mussolini.
Nella grotta il «bombardamento speciale» - gli eufemismi sulle bombe intelligenti si inaugurarono allora - è portato a termine dal «plotone chimico» della divisione Granatieri di Savoia, da sempre ritenuta una delle più «nobili» delle nostre Forze Armate. La notte dopo, una quindicina di ribelli armati tenta una sortita e riesce a scappare. Molti cadaveri vengono gettati fuori dalla grotta. Gli altri muoiono avvelenati o si arrendono all' alba del giorno 11. Ottocento persone, si legge nel documento, che il mattino stesso vengono fucilate, «d'ordine del Governo Generale». Come dire del generale Ugo Cavallero o dello stesso Amedeo di Savoia, pure lui di nobile reputazione. Un massacro, contro ogni norma della convenzione di Ginevra. Ma non è finita. Dentro c'è chi resiste ancora - uomini, donne e animali - e i nostri chiedono i lanciafiamme per «bonificare» l'antro, ramificatissimo.
I meticolosi telegrammi degli alti comandi sono istantanee dall' inferno. «Si prevede che fetore cadaveri et carogne impediscano portare at termine esplorazione caverna che in questo sarà ostruita facendo brillare mine. Accertati finora 800 cadaveri, uccisi altri sei ribelli. Risparmiate altre 12 donne et 9 bambini. Rinvenuti 16 fucili, munizioni et varie armi bianche». La prevalenza di inermi disarmati tra i ribelli è ormai chiara. In quegli stessi giorni, in un' altra grotta della zona, ne vengono uccisi 62, di cui due donne. Ma vengono «risparmiate 62 donne et 58 bambini», poi sono «catturati 33 muli, 3 cavalli et 23 asini denutriti dal lungo digiuno», e successivamente altri «27 uomini, 16 donne e 4 bambini». Le prove, schiaccianti, entrano nella tesi di dottorato di Dominioni.
Ma mancano ancora i riscontri sul terreno, così il ricercatore organizza un blitz col supporto dell' Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Va in Africa dove viene accompagnato dal giovane studioso etiope Johnatan Sahle. Siamo a fine aprile, in tempo per evitare le grandi piogge equatoriali. La mappa trovata allo Stato maggiore consente di individuare facilmente la zona, a un giorno di macchina dalla Capitale, in un terreno crivellato di grotte e punteggiato di chiese copte, attorno alla cittadina di Ankober, 2600 metri di quota, alta sulle valli dei fiumi Uancit e Beressà. E' dai preti dei villaggi che arrivano le prime conferme («non ottocento, ma migliaia di morti») e l' indicazione delle strada giusta, fino al paesino di Zemerò, e poi - per altri 30 chilometri fuori pista - fino al villaggio di Zeret, una ventina di tukul in pietra e paglia, 180 metri a picco sopra la bocca dell' inferno. Il nome della grotta dice già tutto: Amezegna Washa, antro dei ribelli. Sotto, il fiume Ambagenen, che vuol dire Fiume del Tiranno. All' imboccatura, lo stesso muretto protettivo descritto nei rapporti dell' esercito italiano.
La gente del posto ha già elaborato magicamente l' evento, racconta che gli scheletri trovati davanti alla grotta sono «caduti dal cielo come monito» e poi sono stati spostati nella chiesa di Jigem, ora irraggiungibile perché infestata di briganti. Dentro la caverna non c' è più andato nessuno, da allora. Si dice che sia piena di spiriti, pronti a spegnerti la candela con un soffio per inghiottirti nel buio. Ma Dominioni ha una dotazione di torce elettriche che nessun Grande Spirito può toccare, così molti giovani del villaggio si fanno coraggio e decidono di accompagnarlo nella caverna, in una missione scientifica che per loro diventa esorcismo. Dentro, un labirinto, in parte impercorribile. Ma bastano i primi cento metri alla luce incerta delle torce per dare conferme. «Ossa dappertutto - racconta il ricercatore - quattro teschi, di cui uno con addosso la pelle della schiena; proiettili, vestiti abbandonati, ceste per il trasporto delle granaglie». E poi rocce annerite, forse dai bivacchi (ma era difficile che i ribelli accendessero fuochi il cui fumo li segnalasse all' aviazione italiana) o forse dai lanciafiamme.
Gli italiani, raccontano i figli e i nipoti di chi vide, calarono verso l' imboccatura della grotta dei pesanti bidoni che poi furono fatti esplodere con i mortai. Era quasi certamente l' iprite, il gas che corrode la pelle e brucia le pupille. E ancora: chi non fu fucilato, fu buttato nel burrone sotto la grotta. «Fu colpa degli ascari, le truppe indigene inquadrate nell' esercito italiano» è l' obiezione ricorrente di fronte ai massacri in Abissinia. «Ma gli ascari - ribatte Dominioni - non si muovevano mai senza l' ordine di un ufficiale bianco. La ferocia di queste repressioni era anche il segno dell' esasperazione dei fascisti di fronte alla resistenza degli etiopi. La rabbia per un controllo incompleto del territorio». No, il camerata Kappler non fu peggio di noi. Il governatore della regione di Gondar, Alessandro Pirzio Biroli, di rinomata famiglia di esploratori, fece buttare i capitribù nelle acque del Lago Tana con un masso legato al collo. Achille Starace ammazzava i prigionieri di persona in un sadico tiro al bersaglio, e poiché non soffrivano abbastanza, prima li feriva con un colpo ai testicoli.
Fu quella la nostra «missione civilizzatrice»? L'Africa per noi non fu solo strade e ferrovie. Fu anche il collaudo del razzismo finito poi nei forni di Birkenau. Negli stessi anni, un altro personaggio con la fama di «buono» - Italo Balbo governatore della Libia - fece frustare in piazza gli ebrei che si rifiutavano di tenere aperta la bottega di sabato. Quanti perfidi depistaggi della coscienza. «Ambaradan», per esempio. Sa noi è una parola che fa ridere; vuol dire «allegra confusione». Ma quando sai cosa accadde nella battaglia dell' Amba Aradam, montagna fatale dell' Etiopia, quel termine sembra coniato apposta per coprire l' orrore. Migliaia di tonnellate di iprite per stanare i nemici arroccati nelle grotte, cioè morte orrenda, inflitta vigliaccamente con sofferenze inaudite. Badoglio fece agli etiopi ciò che Saddam fece ai Curdi. Solo che Saddam è alla sbarra, e l'Italia non ha risposto dei suoi crimini. «C' è bisogno di parlarne - spiega Dominioni - il vuoto storico e morale da riempire è enorme. A ottobre sarà prima volta che italiani ed etiopi dibatteranno insieme ad un convegno, a Milano, sull' Africa orientale italiana sotto vari aspetti, organizzato dall' Insmli. Prima non s' era fatto mai».
La cosa, ovviamente, dà fastidio. Chissà che agli etiopi non venga in mente di chiederci danni di guerra, cosa che finora non hanno fatto. «Gli etiopi non hanno mai capito perché l'Italia ha voluto quella guerra dopo innumerevoli trattati di pace, fratellanza e promesse di coesistenza pacifica» va giù duro il professor Abebe Brehanu, uno dei massimi storici di Addis Abeba. «E che sia chiaro - insiste - la vostra non fu una colonizzazione, ma una semplice invasione, contro tutti i trattati internazionali. Un atto di illegalità totale di cui ci chiediamo ancora il senso».
Articolo di Paolo Rumiz, Repubblica del 22 maggio 2006
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(A. Bergonzoni)