Giovedì, 23 Ottobre 2014 18:05

Le mani sull'Africa


Esteri Il summit si è tenuto tra il 14 e il 19 ottobre
Le mani sull'Africa

Ecco la Dichiarazione per i Diritti all'Acqua e alla Terra: dal Forum Sociale Africano una risposta all'accaparramento armato dei beni comuni. L'alleanza strategica dei movimenti globali contro il land-grabbing e il water grabbing, firmata da decine di organizzazioni della società civile convenute a Dakar

Il Forum Sociale Africano si è svolto a Dakar (Senegal) dal 14 al 19 ottobre. Con all'attivo sette forum sociali continentali e 4 mondiali (Bamako, Nairobi, Dakar e Tunisi), l'Africa occupa oggi stabilmente il primo posto della mobilitazione altermondialista della società civile globale, scavalcando addirittura l'America Latina, patria storica del Social Forum.

E ogni Forum lascia un'eredità forte su cui lavorare: questa edizione del Social Forum Africano si è chiuso con l'adozione  di una “Dichiarazione per i Diritti alla Terra e all'Acqua”: la testimonianza di un'alleanza strategica dei movimenti globali contro il land-grabbing e il water grabbing, firmata da decine di organizzazioni della società civile convenute a Dakar.

Nonostante l'ebola infatti, continuano a fare infinitamente più vittime i conflitti dimenticati per l'accaparramento delle risorse di un continente che potrebbe essere il più ricco del pianeta. Petrolio e uranio, certo, ma anche oro, coltan, legname, e soprattutto acqua e terra. Le istituzioni finanziare internazionali raccontano di un continente traboccante di terra fertile pigramente inutilizzata, di risorse idriche “in attesa di essere valorizzate”. La realtà, è che l'accesso a queste risorse garantisce la sopravvivenza di milioni di individui. Nonostante la retorica coloniale della terra nullius, i casi di land-grabbing in Africa si accompagnano sistematicamente a violenze, abusi, torture, ai danni di chi quelle terre le abitava. I contadini del Mali ci hanno raccontato di interi villaggi bruciati dai gendarmi per fare posto al mito della terra inutilizzata. In Senegal, Etiopia e in molti altri paesi, espropri e deportazioni hanno lasciato morti sul campo.
Oggi la spirale della militarizzazione ha un altro obiettivo: l'acqua, bene comune essenziale per la vita. Se il conflitto israelo-palesinese ci ha insegnato il valore strategico dell'accesso all'acqua, il continente africano indica un futuro prossimo di conflitti in cui l'acqua è la posta in gioco. L'accesso all'acqua, sempre più scarsa per via del cambiamento climatico, è al centro del conflitto nel Sahel. In Ghana, l'acqua è definita “bene di sicurezza nazionale” e un disegno di legge vorrebbe rendere passibile di imprigionamento il furto d'acqua (l'evasione della bolletta, che nel paese può raggiungere il 20% del reddito individuale). In Sierra Leone, sono sempre le terre più ricche di acqua quelle che vengono sottratte manu militari ai contadini per fare spazio alle colture idro-insostenibili di biocarburanti e canna da zucchero. E proprio 2 giorni prima dell'inizio del Social Forum, uno degli speaker invitati a parlare ad un seminario organizzato da COSPE è stato incarcerato per aver preso parte ad una manifestazione per il diritto all'acqua. L'acqua è, insomma, il cuore di un conflitto sociale e ambientale che si sta imponendo su tutto il continente. Per questo uno dei traguardi più significativi di questa edizione del Social Forum Africano è stata appunto l'adozione di una Dichiarazione per i Diritti alla Terra e all'Acqua. Carta che, per l'occasione, è stata  proclamata dalla nota scrittrice maliana Aminata Traoré. Nell'anno della negoziazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell'Agenda ONU post-2015 e della COP15 di Parigi, si tratta di un passo importante per far sentire la voce della società civile globale. Che non è solo la vittima passiva delle pandemie agitate dai media, ma anche il soggetto di un cambiamento verso un altro mondo possibile, laboratorio di idee e pratiche per la tutela del bene comune.

 

Articolo di Luca Raineri* del 23 ottobre 2014 tratto da Altreconomia

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Lunedì, 13 Ottobre 2014 09:20

Caso Eni, storia di un'operazione opaca

Caso Eni, storia di un'operazione opaca

Articolo tratto da "Famiglia Cristiana" dell'11/10/2014

(Stefano Pasta)


La notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati in Italia dei massimi dirigenti dell’Eni per una presunta maxi-tangente sta facendo il giro del mondo. All’origine dell’inchiesta (e di quella parallela londinese), c’è un esposto presentato nell’estate 2013 dall’associazione italiana Re:Common insieme all’Ong inglese Global Witness, che ora commentano: «Tutto prevedibile e messo nero su bianco da tempo».

L’accusa ruota attorno alla concessione per l’esplorazione del campo petrolifero Opl245, il maggiore potenziale minerario non esplorato della Nigeria, che nell’aprile 2011 fu pagata da Eni e Shell 1 miliardo e 92 milioni di  dollari (più Shell da sola altri 200 milioni). La compagnia italiana si difende dicendo di aver trattato solamente con il Governo nigeriano, mentre secondo i pm milanesi quella cifra servì a corrompere e retribuire oligarchi locali, dubbi intermediari di entrambi i paesi – tra cui quel Luigi Bisignani già finito al centro dell’indagine per la cosiddetta P4 – e, addirittura, una parte dei soldi sarebbe stata intascata dai manager Eni. «Si ritiene che Scaroni e Descalzi abbiano organizzato e diretto l’attività illecita», scrivono i magistrati nella rogatoria internazionale, puntando quindi il dito contro l’allora amministratore delegato Paolo Scaroni e il suo successore Claudio Descalzi, all’epoca responsabile della Divisione esplorazione e distribuzione e chiamato 4 mesi fa da Renzi, in piena continuità di gestione, al vertice della società italiana controllata al 30% dal Governo. Per altro, le accuse di oggi di Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni, aggraverebbero proprio la posizione di Descalzi: “In Italia imposero il mediatore, 50 milioni tornarono in mazzette”, ha detto alla Repubblica. 

Tutta l’operazione Opl245 nasce da un peccato originale. Al momento dell’acquisto da parte di Eni, la concessione apparteneva alla società nigeriana Malabu, apparentemente solo una casella postale. Gliel’aveva assegnata, a fine anni Novanta, Dan Etete, ministro del Petrolio dell’allora dittatore nigeriano Sani Abacha, già condannato a Parigi per riciclaggio. Successivamente, la società fu al centro di aspre rivendicazioni che coinvolgevano oligarchi, figli di presidenti, faccendieri italiani e nigeriani, conti correnti in Svizzera e a Londra, finché si scoprì che era lo schermo proprio dell’ex ministro nigeriano: sostanzialmente si era autoassegnato la licenza.

Dopo revoche e riottenimenti alla società prestanome, nel 2011 Eni acquistò la concessione, versando i soldi sui conti londinesi del Governo nigeriano, sapendo – secondo l’accusa – che sarebbero stati girati alla Malubu, cioè il prestanome per far arrivare i soldi  ai diversi destinatari delle tangenti. Ma l’accusa dei magistrati milanesi e londinesi è stato un fulmine a ciel sereno sul cane a sei zampe? Non proprio. Anzi, tutto come da copione si potrebbe dire. L’8 maggio scorso, a pochi giorni dalla nomina del neoamministratore, Re:Common aveva criticato la scelta, poiché – scriveva allora – il suo «coinvolgimento in un caso di corruzione legato a un grosso contratto petrolifero in Nigeria solleva seri interrogativi circa la sua idoneità nella gestione del gigante italiano».

È da due anni che l’ong, insieme a Global Witness, Amnesty International e la Fondazione di Banca Etica, denuncia l’opacità della vicenda, sia pubblicamente che intervenendo alle assemblee degli azionisti Eni del 10 maggio 2013 e dell’8 maggio 2014, ottenendo solo risposte evasive. Colpiva per esempio l’altissima commissione richiesta da uno degli intermediari, Emekar Obi, addirittura del 19%. Nonostante il codice interno anticorruzione, non risulta che all’Eni siano state fatte verifiche neanche a fronte di una percentuale così alta (valori oltre il 5% sono considerati sospetti dal governo degli Stati Uniti).

Eppure, i precedenti non mancavano: sempre dopo una vicenda di corruzione di politici locali denunciata da Re:Common, nel luglio 2010 Eni ha patteggiato con le autorità statunitensi (la Sec) il pagamento di 365 milioni di dollari. Questa volta lo scandalo riguardava l’appalto del terminal di esportazione del gas a Bonny Island, sempre in Nigeria. Proprio in quell’occasione, l’azienda si impegnò ad attivare seri programmi anticorruzione…

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