Così l'azionariato critico concilia etica ed economia

Articolo tratto da "Famiglia Cristiana" dell'11/10/2014

(Stefano Pasta)

Luca Manes di Re:Common, l’associazione che ha depositato l’esposto da cui è partito l’indagine della Procura milanese, dice: «Le nostre prime denunce pubbliche su OPL245 sono di due anni fa, mentre i rapporti sui danni ambientali causati dall’Eni risalgono ad almeno sette. Sapevamo che sarebbe scoppiato il bubbone, bastava studiare le carte».

Ma qual è il metodo utilizzato dall’ong? «L’azionariato critico – spiega Manes – cioè compriamo una quota simbolica di azioni, studiamo le carte, approfondiamo i bilanci e, all’assemblea dei soci, interveniamo con critiche puntuali e precise. Inizialmente cerchiamo di aprire un dialogo con le imprese, poi facciamo pressione e informazione fino ad arrivare, se necessario, alla magistratura».

L’azionariato critico vuole proporre una visione etica dell’economia, una forma di finanza sostenibile e civile che promuova la democrazia interna alle imprese, attraverso la responsabilizzazione degli azionisti.  Il metodo, diffuso in Italia da una decina d’anni, nasce nel mondo anglosassone. Una prima forma di azionariato critico può essere considerata la Pioner Found, che a Boston nel 1928 contrastava le cosiddette “azioni del peccato”, non investendo nelle imprese con interessi in settori “immorali” come gioco d’azzardo, armi, alcool e tabacco. Nel 1968 gli studenti della Cornel University nello Stato di New York chiesero alla dirigenza di disinvestire le azioni di società in affari con il Sudafrica segregazionista, mentre il Pax World Found boicottò chi guadagnava dalla guerra in Vietnam.

«Oggi – spiega Manes – impatto sociale e ambientale sono spesso al centro dell’attenzione». È così che Re:Common, ancora quando si chiamava CRBM (Campagna per la Riforma della Banca Etica), ha iniziato a occuparsi di Nigeria, da cui viene il 30% del petrolio sul mercato europeo, e dell’Eni. Lavora in collaborazione con Global Witness, nata nel 1993 in Inghilterra, che è il modello internazionale dell’azionariato critico. Racconta Manes: «L’inquinamento si accompagna, quasi sistematicamente, alla corruzione di politici locali. Alle assemblee degli azionisti Eni del 2011 e 2012, abbiamo fatto intervenire esponenti di ong del Delta del Niger, la zona dei giacimenti, che denunciarono come, a fronte di promesse mancate di aiuti alle comunità, l’estrazione del petrolio aveva invece portato alla distruzione delle economie agricole locali, piogge acide, avvelenamento delle acque e dei pesci, aumento della temperatura. Abbiamo ottenuto solo risposte evasive, mai querele.

Quando l’Eni, pubblicizzando la propria immagine, ha annunciato di aver interrotto le emissioni di gas flaring, siamo andati in missione in Nigeria e abbiamo mostrato, con report e video, che non era vero». La pratica – ovvero la combustione in torcia del gas associato all’estrazione petrolifera – continua in Nigeria per mano delle multinazionali petrolifere, nonostante il divieto della legge locale del 1979 e numerose sentenze che ne hanno confermato l’illegalità. «Vuol dire – spiega Manes – che le zone interessate sono illuminate giorno e notte, segnate da rumore e temperature molto più elevate della norma».

Altro capitolo al centro delle polemiche sono le perdite di petrolio, particolarmente inquinanti. Secondo l’Agenzia nigeriana per il rilevamento e l’intervento per le fuoriuscite, negli ultimi sei anni Eni ha registrato un deciso aumento di fuoriuscite, passando dalle 235 fuoriuscite del 2008 a 471 nei soli primi 9 mesi del 2013. Le multinazionali petrolifere attribuiscono la colpa agli atti di sabotaggio e furti dei locali, mentre ong come Amnesty International e Re:Common puntano il dito sulla scarsa manutenzione delle infrastrutture, spesso obsolete.

«E pensare – aggiunge Manes – che Eni si vanta a fini pubblicitari di essere inclusa dal 2007 nel Dow Jones Sustainability Index di Wall Street e nel FTSE4Good Index della Borsa di Londra. Sono gli indici che dovrebbero garantire la sostenibilità ambientale delle imprese. Ebbene, con il metodo dell’azionariato critico, siamo andati a studiarli: è emerso che sono valutazioni ricavate soprattutto da risposte che le stesse aziende sotto esame forniscono alle agenzie di monitoraggio, una sorta di autovalutazione». Leggermente troppo comodo…Chi invece li ha ritenuti soddisfacenti sono i manager dell’Eni: «La presenza di questi indici – spiegano da Re:Common – è legata a bonus specifici previsti per l’amministratore delegato e il presidente». L’ultimo anno, grazie al “bonus etico”, Scaroni avrebbe incassato 208.800 euro (per un totale di oltre 4 milioni e mezzo).

Infine, una chicca: proprio nel rapporto dell’Eiris, che ha “certificato” l’indice della Borsa di Londra, si legge che l’Eni ha «un alto potenziale di esposizione al rischio corruzione», «un approccio intermedio alla lotta contro la corruzione» e che, mentre «le sue politiche sono avanzate, così come i suoi sistemi, il numero di rapporti prodotti in questo campo specifico è molto limitato».

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Lunedì, 13 Ottobre 2014 09:20

Caso Eni, storia di un'operazione opaca

Caso Eni, storia di un'operazione opaca

Articolo tratto da "Famiglia Cristiana" dell'11/10/2014

(Stefano Pasta)


La notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati in Italia dei massimi dirigenti dell’Eni per una presunta maxi-tangente sta facendo il giro del mondo. All’origine dell’inchiesta (e di quella parallela londinese), c’è un esposto presentato nell’estate 2013 dall’associazione italiana Re:Common insieme all’Ong inglese Global Witness, che ora commentano: «Tutto prevedibile e messo nero su bianco da tempo».

L’accusa ruota attorno alla concessione per l’esplorazione del campo petrolifero Opl245, il maggiore potenziale minerario non esplorato della Nigeria, che nell’aprile 2011 fu pagata da Eni e Shell 1 miliardo e 92 milioni di  dollari (più Shell da sola altri 200 milioni). La compagnia italiana si difende dicendo di aver trattato solamente con il Governo nigeriano, mentre secondo i pm milanesi quella cifra servì a corrompere e retribuire oligarchi locali, dubbi intermediari di entrambi i paesi – tra cui quel Luigi Bisignani già finito al centro dell’indagine per la cosiddetta P4 – e, addirittura, una parte dei soldi sarebbe stata intascata dai manager Eni. «Si ritiene che Scaroni e Descalzi abbiano organizzato e diretto l’attività illecita», scrivono i magistrati nella rogatoria internazionale, puntando quindi il dito contro l’allora amministratore delegato Paolo Scaroni e il suo successore Claudio Descalzi, all’epoca responsabile della Divisione esplorazione e distribuzione e chiamato 4 mesi fa da Renzi, in piena continuità di gestione, al vertice della società italiana controllata al 30% dal Governo. Per altro, le accuse di oggi di Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni, aggraverebbero proprio la posizione di Descalzi: “In Italia imposero il mediatore, 50 milioni tornarono in mazzette”, ha detto alla Repubblica. 

Tutta l’operazione Opl245 nasce da un peccato originale. Al momento dell’acquisto da parte di Eni, la concessione apparteneva alla società nigeriana Malabu, apparentemente solo una casella postale. Gliel’aveva assegnata, a fine anni Novanta, Dan Etete, ministro del Petrolio dell’allora dittatore nigeriano Sani Abacha, già condannato a Parigi per riciclaggio. Successivamente, la società fu al centro di aspre rivendicazioni che coinvolgevano oligarchi, figli di presidenti, faccendieri italiani e nigeriani, conti correnti in Svizzera e a Londra, finché si scoprì che era lo schermo proprio dell’ex ministro nigeriano: sostanzialmente si era autoassegnato la licenza.

Dopo revoche e riottenimenti alla società prestanome, nel 2011 Eni acquistò la concessione, versando i soldi sui conti londinesi del Governo nigeriano, sapendo – secondo l’accusa – che sarebbero stati girati alla Malubu, cioè il prestanome per far arrivare i soldi  ai diversi destinatari delle tangenti. Ma l’accusa dei magistrati milanesi e londinesi è stato un fulmine a ciel sereno sul cane a sei zampe? Non proprio. Anzi, tutto come da copione si potrebbe dire. L’8 maggio scorso, a pochi giorni dalla nomina del neoamministratore, Re:Common aveva criticato la scelta, poiché – scriveva allora – il suo «coinvolgimento in un caso di corruzione legato a un grosso contratto petrolifero in Nigeria solleva seri interrogativi circa la sua idoneità nella gestione del gigante italiano».

È da due anni che l’ong, insieme a Global Witness, Amnesty International e la Fondazione di Banca Etica, denuncia l’opacità della vicenda, sia pubblicamente che intervenendo alle assemblee degli azionisti Eni del 10 maggio 2013 e dell’8 maggio 2014, ottenendo solo risposte evasive. Colpiva per esempio l’altissima commissione richiesta da uno degli intermediari, Emekar Obi, addirittura del 19%. Nonostante il codice interno anticorruzione, non risulta che all’Eni siano state fatte verifiche neanche a fronte di una percentuale così alta (valori oltre il 5% sono considerati sospetti dal governo degli Stati Uniti).

Eppure, i precedenti non mancavano: sempre dopo una vicenda di corruzione di politici locali denunciata da Re:Common, nel luglio 2010 Eni ha patteggiato con le autorità statunitensi (la Sec) il pagamento di 365 milioni di dollari. Questa volta lo scandalo riguardava l’appalto del terminal di esportazione del gas a Bonny Island, sempre in Nigeria. Proprio in quell’occasione, l’azienda si impegnò ad attivare seri programmi anticorruzione…

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