g

g

Mercoledì, 14 Febbraio 2024 09:35

Giornata delle memorie: quali?

Mercoledì, 06 Gennaio 2021 16:28

Un mondo di plastica

Mercoledì, 30 Dicembre 2020 23:45

Distanza a-didattica

Venerdì, 02 Ottobre 2020 19:45

Senza parole...

Venerdì, 09 Giugno 2017 22:38

Wherever I go

"Wherever I Go" è il singolo di Mark Knopfler (che canta assieme a Ruth Moody), estratto dal nuovo album "Tracker", l’ottavo da solista uscito il 13 marzo 2015.
Semplicissima e malinconica ma... mi piace proprio tanto!



Testo

Maybe I’m bound to wander
From one place to the next
Heaven knows why
But in the wild blue yonder
Your star is fixed in my sky
 
Just another bar at a crossroads
So far from home
But that’s alright
Whenever I’m going down a dark road
I don’t feel alone in the night
 
There’s a place in my heart
Though we’re far apart
May you always know
No matter how long since I saw you
I’ll keep a flame there for you
Wherever I go
 
They’re looking to close up in here
They’re pulling down the blinds
But they’ll let you stay awhile
They’re not going to mind
 
Now I’ve got to leave you, brother
So this round’s mine
Here’s looking at you, anyhow
You can go on and have another
They won’t call time
I’m going to say my goodbyes now


 
Traduzione

Forse sono destinato a girovagare
Da un luogo all’altro
Chissà quale motivo
Nella natura blu lassù
La tua stella è fissa nel mio cielo
 
 
Uno dei soliti bar ad un incrocio
Così lontano da casa
Ma va bene così
Ogni volta che percorro una strada buia
Non mi sento sola nella notte
 
C’è un posto nel mio cuore
Anche se siamo lontani
Sappilo sempre
Non importa da quanto tempo non ti ho visto
Manterrò una fiamma accesa qui per te
Ovunque io vada
 
Stanno per chiudere qui
Stanno abbassando le tapparelle
Ma ci lasceranno rimanere per un po'
Non hanno intenzione di cambiare idea
 
Ora devo lasciarti, fratello
Quindi questo round è mio
Qui ti stanno guardando, comunque
Puoi andare avanti e scolarne un’altra
Essi non sono di guardia
Sto per dirti ora il mio addio
Domenica, 30 Aprile 2017 18:09

Bhopal (2 dicembre 1984)

Martedì, 14 Febbraio 2017 22:19

Alessandro Bergonzoni: NEL

Lunedì, 03 Gennaio 2022 18:43

Il razzismo non è mai nuovo

Il 27 gennaio di ogni anno si celebra la "Giornata della memoria"... Ma come fare memoria senza cadere nel vuoto della retorica?
Credo che il monologo di Paolini sia uno strumento prezioso se ci poniamo questo problema e vogliamo provare a raggiungere l'obiettivo...

"Il razzismo non è mai nuovo"
(M. Paolini).
Venerdì, 13 Febbraio 2015 04:00

Povera patria!

Lunedì, 15 Dicembre 2014 12:08

Sand Creek 150 anni fa

Articolo pubblicato in "L'Espresso".

...

La bandiera di Sand Creek
(di Pier Vittorio Buffa)

C’è il sole, a Washington, la mattina del 26 marzo 1863. Sono i tempi cruciali della guerra civile americana e da nemmeno tre mesi, il 1° gennaio, il presidente Abraham Lincoln ha proclamato l’abolizione della schiavitù.

Ma alla Casa Bianca, quella mattina, non si parla né di schiavi, né di confederati. Davanti al presidente ci sono otto capi indiani che vengono dalle grandi praterie del Colorado orientale. Laggiù, in quello che non è ancora uno Stato dell’Unione, negli ultimi anni sono andati a cercare fortuna, e l’oro, migliaia e migliaia di coloni e avventurieri, pacifiche famiglie e uomini violenti. Nascono città e fortificazioni, prende forma quella che diventerà la capitale del Colorado, Denver. E scoppiano le sanguinose battaglie tra i pellerossa, i red skins, e i “visi pallidi”.

I capi indiani, che rappresentano le tribù Cheyenne, Arapahoes, Caddoes, Comanches e Kiowas, erano saliti sul treno a St. Louis. Era la prima volta che vedevano i vagoni dall’interno, che si lasciavano trasportare per le praterie da una locomotiva sbuffante, che viaggiavano senza fatica e senza soste per così tanti chilometri.

Nelle sale della Casa Bianca entrano con passo sicuro e sguardo dritto, hanno giacche e pantaloni di pelle di bisonte con frange e disegni, i mocassini sono leggeri.

Davanti a Lincoln si alza in piedi Avo-na-co, Lean Bear, Orso Magro, portavoce degli Cheyenne, la tribù delle pianure più numerosa. Orso Magro si rivolge a Lincoln chiamandolo Grande Capo Bianco e, con cadenza lenta e solenne, parla di pace. L’interprete, John Simpson Smith, marito di una Cheyenne, Coperta Grigia per gli indiani, traduce con la stessa solennità.

«Gli Cheyennes vogliono vivere in pace con l’uomo bianco. Il Grande Capo dica ai suoi figli di vivere in armonia con gli indiani, fermi le violenze contro di loro». Lincoln risponde che i bianchi stanno già combattendo tra di loro, non vogliono essere in guerra anche con gli indiani e, con un lungo discorso che evoca anche il Grande Spirito, «Grande Padre di tutti noi», spiega ai capi perché i bianchi sono più forti e ricchi. «Perché», dice Lincoln, «ci basiamo più sull’agricoltura che sulla caccia». Sta a voi, conclude, se cambiare o meno le vostre abitudini di vita. Il tono del presidente è tranquillo e amichevole e, per sottolineare con solennità il suo desiderio di pace consegna ai capi indiani una medaglia e un foglio, un diploma che attesta che sono buoni amici degli Stati Uniti

Dallo studio del presidente i capi escono convinti di aver fatto un passo, importante, verso la pace. Accettano quindi volentieri la richiesta di Mary Todd Lincoln, la moglie del presidente, di seguirla in una veranda della Casa Bianca per mettersi in posa davanti a un fotografo. Seduti con le gambe incrociate, la first lady in piedi alle loro spalle, Orso Magro e gli altri guardano impassibili nell’obiettivo che fissa un’immagine storica. Oggi quella fotografia esiste ancora ed è uno dei 142 milioni di pezzi che documentano la storia degli Stati Uniti conservati nel più grande complesso museale del mondo, lo Smithsonian di Washington.

Orso Magro, tornato al suo accampamento, racconta subito il viaggio e l’incontro con il Grande Capo Bianco a Moke-ta-ve-to, Black Kettle, Pentola Nera. Perché Pentola Nera è un capo come lui e doveva, come lui, partire per Washington. Solo all’ultimo momento aveva deciso di restare al villaggio per non lasciare la tribù senza guida. Ma tale è la sua autorevolezza che molte ricostruzioni dell’incontro di Washington registrano Pentola Nera tra i capi presenti, come se non avesse potuto non esserci. Orso Magro gli mostra la medaglia donatagli da Lincoln e Pentola Nera gli indica, in un angolo della sua tenda, la bandiera americana che da tre anni conserva come una delle sue cose più preziose e che ogni tanto alza sopra la propria tenda.

COLORADO, LA CORSA ALL'ORO

Alla fine del 1860, la corsa all’oro del Colorado era iniziata un anno prima, l’allora commissario per gli Affari Indiani Alfred B. Greenwood aveva radunato un gruppo di capi guidati da Pentola Nera e da Vo-ki-vokamast, White Antelope, Antilope Bianca, un altro capo cheyenne anziano e ascoltato, che era stato a Washington anni prima, nel 1852, quando alla Casa Bianca c’era Millard Fillmore. Il 18 settembre inizia, con la pipa fumata da Greenwood e dai capi Cheyenne, una lunga serie di colloqui e trattative che avrebbe portato l’anno dopo, alla firma di un importante trattato, il trattato detto di “Fort Wise” dal nome del forte in cui viene firmato. Ed è il 18 settembre che Greenwood consegna a Pentola Nera la bandiera americana che il vecchio capo, da quel giorno, tiene sempre accanto a sé. Ha trentatre stelle, perché alla fine del 1860 è appena entrato nell’Unione l’Oregon e deve ancora entrarvi il 34° Stato, il Kansas. È grande come quelle che sventolano sui forti. È un forte segno di considerazione perché Greenwood, nel consegnarla a Pentola Nera, garantisce che se lui la sventolerà davanti ai soldati la bandiera verrà riconosciuta come segno di amicizia e fermerà le armi..
l capo cheyenne sa che la strada che porta lontano dalla guerra è lunga e difficile, che non basta certo una stoffa colorata per renderla veloce e sicura. Ma il capo bianco ha dato la sua parola, quella bandiera dimostra che Pentola Nera e la sua gente non sono più nemici dei soldati. E con quella bandiera potrebbe essere un po’ meno difficile convincere anche i giovani che la paceè possibile.

Gli Cheyenne di Pentola Nera rispettano i patti di Fort Wise del 1861 e restano nei territori che gli sono stati assegnati, nella parte sudorientale dell’attuale Colorado, sulla riva sinistra del fiume Arkansas. I più anziani pensano che bisogna solo aspettare che quella torma di uomini bianchi continui la sua corsa verso l’Ovest e poi tutto tornerà come prima. Era già successo, quando erano giovani, con quella che è passata alla storia del West come la corsa all’oro del 1849. I territori cheyenne vennero attraversati da carovane di avventurieri e minatori che andavano il più veloce possibile per arrivare dove c’era il miraggio della ricchezza, in California. La stessa frenesia, la stessa febbre d’avventura di quei tempi gli indiani la vedono dieci anni dopo quando parte la seconda grande corsa all’oro. Le loro terre sono invase da uomini uguali a quelli di dieci anni prima e gli indiani aspettano che la storia si ripeta, che se ne vadano più a ovest e li lascino in pace. Ma non è così. La corsa all’oro del 1859 ha tra suoi punti d’arrivo proprio le terre del Colorado e insieme ai cercatori arrivano centinaia, migliaia di agricoltori che, in pochi anni, mettono radici in quelle terre.

I più giovani e irrequieti Cheyenne capiscono di essere senza futuro. La terra dove vivono non è fertile, i bisonti, il principale mezzo di sostentamento delle tribù, sono lontani, i boschi vengono tagliati dagli uomini bianchi. L’inverno del 1863, per gli indiani, che vivono lungo l’Arkansas è un inverno duro, con cibo scarso e fuochi deboli, che non riscaldano abbastanza. Così la primavera vede gruppi di giovani guerrieri rubare bestiame ai bianchi, assaltare fattorie e convogli. E i soldati con le giacche blu rispondere con attacchi a freddo a villaggi indiani, con l’uccisione di donne e bambini.

La Trentatre stelle di Pentola Nera sventola sempre più spesso sulla tenda del capo cheyenne, ma non basta a tenere unita tutta la tribù, a mantenere dritta la strada verso la pace, a convincere gli uomini bianchi che gli Cheyenne del Sud vogliono vivere senza guerre.

LA MORTE DI ORSO MAGRO

Alla metà di maggio del 1864 Pentola Nera decide, insieme a Orso Magro, di spostare l’accampamento in una zona più sicura. Smontano le 250 tende e si mettono in marcia verso Smoky Hill River. Una sera, mentre si stanno preparando per passare la notte, un gruppo di indiani lascia la colonna per andare a cacciare, per procurarsi il cibo. Ma ci sono i soldati, tanti e con i cannoni, a sbarrare la strada.

Orso Magro prende l’iniziativa: bisogna far capire subito che il suo popolo non vuole far del male a nessuno, che sta marciando tranquillo per la propria strada. Mette al collo la medaglia che gli aveva donato il presidente Lincoln e prende in mano l’attestato che gli aveva consegnato il Grande Capo Bianco, dove è scritto che lui, Orso Magro, è un amico dei bianchi.

Ma dall’altra parte le intenzioni sono diverse. Ottantaquattro soldati e due obici sono agli ordini di un sottotenente che ha avuto ordini precisi: «Uccidere gli Cheyenne comunque e dovunque».

Orso Magro galoppa fino quasi in cima alla collina dove il sottotenente ha disposto le giubbe blu in ordine di combattimento, Orso Magro ferma i guerrieri che lo accompagnano e va da solo verso i soldati. Con una mano impugna la medaglia che porta al collo, con l’altra tiene ben alto l’attestato di amicizia di Lincoln. Ma non serve, il sottotenente dà un ordine secco e una scarica di fucile uccide Orso Magro, uno dei capi che aveva firmato il trattato di Fort Wise, che aveva stretto la mano al presidente degli Stati Uniti.

I guerrieri Cheyenne attaccano, dall’accampamento arrivano i rinforzi, il sottotenente fa piazzare gli obici che sparano qualche colpo, ma senza nessuna precisione. Pochi minuti dopo la morte di Orso Magro sul campo di battaglia ci sono almeno cinque o seicento guerrieri Cheyenne e Arapahoes (le due tribù si stavano spostando insieme) che si preparano a circondare le ottantaquattro giubbe blu. Le forze in campo sono impari. Anche se gli indiani hanno soprattutto frecce e asce sono così tanti e così determinati a vendicare l’uccisione a freddo del loro capo che la colonna militare rischia di essere annientata. Lo scontro è sempre più ravvicinato, i soldati non riescono nemmeno a puntare i cannoni e il destino della battaglia sembra davvero segnato quando appare Pentola Nera. Galoppa in mezzo alle frecce e ai colpi di fucile, fa ampi gesti con le braccia, grida ai suoi guerrieri di smettere, di non combattere, che non bisogna fare la guerra ai bianchi. Gli Cheyenne non obbediscono, continuano a combattere. Pentola Nera attraversa più volte il campo di battaglia rischiando di essere colpito da frecce e pallottole: solo dopo altre urla e gesti decisi i guerrieri cominciano a ritirarsi, a lasciare la collina sulla quale stavano per annientare la colonna di soldati.

Probabilmente è quella sera che Pentola Nera diventa il capo unico e riconosciuto degli Cheyenne del Sud. Mettendo in gioco la sua stessa vita ha impedito che venisse per sempre compromessa ogni speranza di pace. Chi avrebbe più trattato con indiani che avevano ucciso ottantaquattro soldati? Il bilancio della battaglia è, alla fine, modesto: quattro o cinque giubbe blu e tre indiani.

Ma per i guerrieri più duri e ribelli l’assassinio di Orso Magro deve essere ancora vendicato e l’11 giugno accade quello che Pentola Nera non avrebbe mai voluto che accadesse.

Giovani Cheyenne attaccano una fattoria, uccidono moglie, marito e le loro due figlie, fanno scempio dei corpi. I bianchi inorridiscono, caricano i cadaveri sui carri e li portano a Denver per mostrarli alla popolazione così come sono, scalpati e mutilati, perché tutti sappiano di cosa sono capaci i selvaggi indiani. E’ orrore e odio contro i “pellerossa”, gli scontri diventano sempre più cruenti, i morti si contano a decine, chi vuole ancora la pace deve muoversi, subito.

Pentola Nera fa arrivare segnali di pace al colonnello che ha il comando dei soldati del Colorado, John M. Chivington. Ma l’ufficiale, un ex pastore metodista con ambizioni politiche, gli manda a dire che lui non ha nessun potere di trattare la pace e che, per quel che lo riguarda, è sul sentiero di guerra.

"UCCIDERE GLI INDIANI"

È un’estate così sanguinosa quella del 1864, in Colorado, che non è stato mai possibile calcolare con precisione quanti scontri vi furono tra bianchi e indiani, quante vittime. La tensione e la paura sono così alte che l’11 agosto il governatore John Evans, autorizza «i cittadini del Colorado» a «uccidere e distruggere, come nemici dello Stato, gli indiani ostili». È il via libera alla violenza, la rinuncia alla giustizia. È guerra totale. Ma Pentola Nera non rinuncia a cercare ancora la pace.

Alla fine di agosto riceve il messaggio che il 27 giugno il governatore aveva indirizzato agli «Indiani amici delle praterie». Era l’offerta per una sorta di «pace separata». Gli indiani che non volevano combattere dovevano mettersi a disposizione dell’agente per le questioni indiane Samuel G. Colley, a Fort Lyon, lungo il fiume Arkansas, e seguire le sue indicazioni. Pentola Nera riunisce i capi che fanno parte del Consiglio e prepara una lettera per Colley e per il maggiore Edward W. Wynkoop, ventottenne comandante di Fort Lyon.

«Abbiamo tenuto un consiglio e abbiamo concluso tutti insieme di far pace con te a patto che tu faccia pace con i Kiowa, i Comanche, gli Arapahoes, gli Apache e i Sioux. Intendiamo mandare un messaggio ai Kiowa sulle nostre intenzioni di far pace con te. Abbiamo sentito che tieni alcuni prigionieri a Denver. Noi abbiamo sette prigionieri dei tuoi e intendiamo lasciarli liberi a patto che tu liberi i nostri».

Edward “Ned” Wynkoop, appena letto il messaggio del capo indiano, capisce che deve rispondere subito: in quelle poche righe è tracciata la strada che potrebbe portare alla pace con il popolo di Pentola Nera. In quarantottore prepara una colonna, centoventisette uomini e due cannoni, riportano con precisione le cronache e le testimonianze, con i quali decide di raggiungere l’accampamento di Pentola Nera, lontano quasi 150 miglia. E’ quasi arrivato quando viene bloccato da centinaia di Cheyenne che sembrano pronti ad attaccare. Il maggiore si prepara alla difesa e sta per avere il via una scena classica dell’epopea del West, descritta decine di volte in romanzi e film: i soldati in circolo che si difendono da guerrieri veloci e determinati. Quasi sempre arriva, annunciata dalla tromba, la cavalleria che salva i compagni accerchiati e pone fine alla battaglia. Quel 9 settembre 1864, invece, a Hackberry Creek, è un capo indiano, Pentola Nera, a intervenire ancora una volta con la forza e la decisione che già conosciamo. Galoppa tra soldati e indiani, ordina ai suoi di abbassare le armi perché «gli uomini bianchi sono venuti in pace». E cosi è: non vola una freccia, non spara un fucile.

L’indomani Pentola Nera, Antilope Bianca e gli altri capi fumano la pipa con Wynkoop e iniziano a parlare. Gli indiani sono tesi, accusano il maggiore di essere venuto per attaccarli. Ma è ancora Pentola Nera a portare pace e calma. Con un lungo e pacato discorso che termina con le solenni parole: «Moke-ta-ve-to ha detto» spiega quello che sta succedendo, parla di pace e dei prigionieri che vanno consegnati ai bianchi e convoca per la notte il consiglio dei capi. Scriverà Wynkoop nella sua “Incompiuta storia del Colorado”: Pentola Nera «ha stampato in ogni suo lineamento che è nato per comandare». E in quei difficili giorni dell’autunno Pentola Nera si conferma ancora una volta, e non solo per i bianchi, il capo indiscusso degli Cheyenne del Sud. Tutto va come Pentola Nera ha voluto. I prigionieri vengono consegnati a Wynkoop e il capo cheyenne dice al maggiore che lo seguirà al forte insieme a una delegazione di capi per poi andare a Denver, la capitale, per incontrare il governatore.

IL TAVOLO DELLA PACE

Il 28 settembre, a Fort Weld, poco lontano dalla città, intorno allo stesso tavolo siedono otto capi indiani, guidati da Pentola Nera, e sedici uomini bianchi, guidati dal governatore John Evans e dal colonnello Chivington.

Il primo a parlare è Pentola Nera.

«Noi», dice, «chiediamo di essere in pace con i bianchi, vogliamo stringere la vostra mano. Stiamo viaggiando attraverso una nuvola. Il cielo è scuro da quando è cominciata la guerra. Questi uomini coraggiosi che sono qui con me sono pronti a fare quello che dico. Noi vogliamo portare buone notizie al nostro popolo perché tutti possano dormire in pace. Vi chiedo di dire ai capi dei soldati che sono qui che noi siamo per la pace, che non commetteremo l’errore di considerarli nemici».

Ma il governatore risponde duro, accusa gli Cheyenne di essersi alleati con i Sioux, di aver «fumato la pipa» con i nemici dei bianchi. Pentola Nera ribadisce il suo impegno per la pace e il dibattito serrato, riferito nei dettagli dalle cronache e dai memoriali del tempo, prosegue per tutto il giorno. Il governatore spiega con parole che non prevedono appello la sua decisione definitiva.

«Non ho nuove proposte», dice in sostanza Evans, «non sono in condizione di fare un trattato di pace perché la guerra è cominciata. Il mio consiglio è di dimostrare con i fatti la vostra amicizia nei miei confronti». I fatti che il governatore chiede sono di mettersi sotto il totale controllo dei militari. «La pace non dovete farla con me, ma con i soldati». E Chivington, che ha seguito in silenzio la discussione, suggella la giornata spiegando qual è il suo compito: «Io devo combattere uomini bianchi e indiani fino a quando non depongono le armi e si sottopongono all’autorità militare. Siete più vicini di chiunque al maggiore Wynkoop e quando sarete pronti potrete andare con lui a farlo».

Pentola Nera però è soddisfatto, abbraccia il governatore e il maggiore, stringe le mani a tutti e due e, con i partecipanti al consiglio, si mette in posa per una fotografia. Il capo indiano ha interpretato le parole di Evans come può fare un uomo di buona volontà che ha come unico obiettivo la pace e la serenità del suo popolo. Parte da Fort Weld pensando che la pace sia a portata di mano, Evans gli ha indicato la strada, il colonnello è stato più enigmatico, ma lui è amico di Wynkoop, si fida del maggiore e non teme tradimenti da parte delle giacche blu. Anche perché laggiù, al campo, c’è la bandiera.

Sventolano alte sulla sua tenda le stelle dell’Unione quando dice ai suoi Cheyenne che bisogna ancora partire, andare più vicini al forte per mettersi sotto la protezione dei soldati, dimostrare di non essere loro nemici. Seicento Cheyenne con le loro 120 tende si mettono in marcia per stabilire il nuovo campo lungo il Sand Creek, un affluente del fiume Arkansas, quaranta miglia a nord ovest di Fort Lyon.

Pentola Nera, adesso, si sente più tranquillo, ha seguito le indicazioni del governatore, non ha più nulla da temere e può aspettare l’arrivo dell’inverno che, da sempre, porta con sé, insieme alla fame e al freddo, la pace o, almeno, la tregua. Perché non crede alla parole minacciose del governatore («E’ l’inverno la stagione in cui faccio meglio la guerra», aveva detto a Denver) e non interpreta nemmeno come dovrebbe il cambio della guardia a Fort Lyon. Il 2 novembre il maggiore Edward W. Wynkoop, l’uomo che aveva organizzato l’incontro di Fort Weld e che aveva fatto il possibile per far finire la guerra, lascia il comando del forte. Gli subentra un altro maggiore, Scott J. Anthony, noto per il suo odio verso gli indiani e al quale viene affidato un compito che, da solo, spiega il cambio della guardia. Deve indagare sull’operato del suo predecessore, di Wynkoop, per accertare se è stato troppo tollerante con gli indiani, se ha violato gli ordini fornendo loro cibo e attrezzature. Ma questo, forse, Pentola Nera non lo sa.

Appena gli riferiscono che c’è un nuovo comandante il capo cheyenne va subito a fargli visita. Al forte c’è ancora Wynkoop che lo rassicura. Il nuovo comandante, gli dice, terrà fede a tutte le promesse. E Anthony è gentile, si dice disposto ad avere rapporti amichevoli. con Cheyenne e Arapahoes (un piccolo gruppo di questa tribù vive da tempo insieme agli Cheyenne di Pentola Nera).

«Se resterete al Sand Creek sarete salvi», garantisce. E come pegno regala al capo cheyenne una bandiera bianca.

«Tenetela bene in vista, è un segno di pace, vuol dire che non volete la guerra, nessuno vi farà del male». E quando Pentola Nera gli dice che, per l’inverno, hanno provviste scarse perché nella zona non ci sono bisonti, il maggiore autorizza un buon numero di guerrieri a uscire dai territori assegnati per andare a caccia.

Pentola Nera monta di nuovo in sella e durante le 40 miglia che separano il forte dal suo accampamento di Sand Creek si convince che la strada presa è quella giusta. Parlando, discutendo, trattando con gli uomini bianchi forse si può riuscire a vivere in pace.

Appena arriva al campo Pentola Nera mostra a tutti la bandiera bianca che gli ha donato il comandante del forte. Poi va alla sua tenda, impugna l’asta con la bandiera con le stelle e vi fissa anche la stoffa bianca. Quando i due drappi sventolano alla brezza del Sand Creek è come se il cielo scuro e le nubi di cui Pentola Nera aveva parlato a Fort Weld non ci fossero più: in quel momento l’anziano capo vede stelle e sereno sopra il suo popolo.

La vita, tra il centinaio di tende dell’accampamento di Sand Creek, scorre tranquilla. E’ la fine di novembre, fa freddo, la neve è già caduta copiosa. Si dorme vicino ai fuochi, si aspetta il ritorno dei cacciatori per lavorare la carne di bisonte.

29 NOVEMBRE 1864. ALBA

All’alba del 29 sono, alcune donne, come sempre, a uscire per prime dalle tende. Sentinelle a guardia del campo non ce ne sono, da tempo Pentola Nera aveva deciso che non c’era bisogno di sorveglianza durante la notte. Le donne sentono un lontano rumore di zoccoli, pensano alle centinaia di cavalli della tribù chiusi nei recinti ai bordi del campo, temono una loro fuga, danno l’allarme agli uomini.

Ma il rumore si avvicina sempre di più, non possono essere cavalli in fuga. In mezzo alla neve, appena illuminati dalla prima luce del giorno, sbucano i soldati. Prima decine, poi centinaia, da destra e da sinistra. Quattro boati precedono di pochi istanti quattro esplosioni in mezzo alle tende, sono colpi di cannone. Urla, pianti. I soldati attaccano, sparano. Ma perché? Cosa è successo?

Orso Magro, il capo cheyenne che era stato alla Casa Bianca, era morto qualche mese prima, ucciso a sangue freddo mentre mostrava a un tenente l’attestato di amicizia del presidente Lincoln. Lì al campo, in quel gelido mattino, c’è un altro anziano guerriero che era stato a Washington: Antilope Bianca.

Antilope Bianca corre verso i soldati con le braccia alzate, grida, in un inglese comprensibile, «Stop, stop». Tutti sanno che ha firmato il trattato di Fort Wise, che vuole da sempre la pace, lo ascolteranno. E invece lo prendono a fucilate e cade nella neve. «Niente vive a lungo. Solo la terra e le montagne», canta prima di morire. È il canto di morte degli Cheyenne.

Pentola Nera guarda quegli uomini che sparano contro il suo popolo. Pensa a un errore, potrebbero aver sbagliato accampamento, o forse sono soldati che vengono da fuori, non sanno che gli Cheyenne del Sand Creek sono in pace con i bianchi. Lui sa cosa fare per far capire come stanno davvero le cose. Ha due salvacondotti proprio lì, sopra la sua tenda. Impugna l’asta con la bandiera a trentatre stelle e la bandiera bianca, urlando e con ampi gesti delle braccia chiama a raccolta il suo popolo. Sotto queste due bandiere saremo salvi, pensa, appena i soldati le vedranno si fermeranno, capiranno che siamo in pace, che vogliamo la pace.

La bandiera dell’Unione gliel’aveva donata l’ex commissario per gli affari indiani proprio perché i soldati sapessero che era amico dei bianchi. Di quella bianca aveva imparato a conoscere il significato anche se era una segno che non apparteneva al suo popolo. E non poteva sapere quello che la leggenda narra della bandiera bianca. Non sapeva che la prima volta che si fece uso del bianco come segno di pace fu proprio in terra d’America, quasi mille anni prima. Da una parte c’erano i vichinghi, dall’altra gli indigeni, gli abitanti di quella che adesso è la regione canadese di Terranova.

Narra la saga di Eirik il Rosso, il grande esploratore vichingo che scoprì e colonizzò la Groenlandia, che un giorno un gruppo di vichinghi guidati da Karlsefni vide arrivare nove barche di pelle. Gli uomini che vi erano a bordo cominciarono ad agitare i loro bastoni tutti nella stessa direzione, che era la stessa del sole. I vichinghi intuirono che quello era un segno di pace. Disse un compagno di Karlsefni, Snorri: «Prendiamo uno scudo bianco e alziamolo verso di loro». Così fecero e quegli uomini remarono verso di loro e approdarono, restarono un po’ con loro e poi ripartirono remando verso mezzogiorno. Su quella terra Karlsefni e i suoi trascorsero l’inverno. Quando arrivò la primavera gli uomini delle barche tornarono agitando i loro bastoni sempre secondo la direzione del sole. I vichinghi risposero con gli scudi bianchi e, narra la saga, «iniziarono i commerci»: stoffa rossa in cambio di «pelli scure e perfette». Ma accadde un incidente, il toro di Karlsefni «fuggì nella foresta muggendo» e gli uomini ne furono terrorizzati. Corsero alle loro barche e remarono a tutta forza verso il largo. Quando tornarono, dopo molte settimane, urlavano e agitavano i bastoni nella direzione opposta a quella del sole. I vichinghi alzarono gli scudi rossi e fu battaglia.

Ma in quell’alba gelida, nel cuore del continente sul quale i vichinghi avevano per primi messo piede così tanti secoli prima, non c’è segnale di pace in grado di fermare le armi.

I soldati passano galoppando sopra il corpo di Antilope Bianca mentre sempre più indiani, soprattutto donne e bambini, si radunano intorno al loro capo e alle sue due bandiere. Pentola Nera le sventola più in alto che può, è sicuro che appena le vedranno i soldati si fermeranno, non può che essere così.

A un certo punto, però, capisce, che nessuno onorerà le due bandiere. Forse è quando vede galoppare verso di lui il nuovo comandante del forte, quel maggiore che gli aveva garantito la pace e gli aveva regalato la bandiera bianca. A un certo punto, le bandiere di Pentola Nera non sventolano più sulle teste degli Cheyenne e degli Arapahoes, in mezzo alle tende c’è solo orrore e morte.

I TESTIMONI

I racconti dei testimoni oculari di quella mattina sono più efficaci di qualunque ricostruzione.

Robert Bent, figlio di un bianco e di una cheyenne, marito di una nipote di Pentola Nera, costretto a guidare i soldati fino al campo.

«Vidi sventolare la bandiera americana e udii Pentola Nera che diceva agli indiani di stare intorno alla bandiera e lì si accalcarono uomini, donne e bambini. Eravamo a meno dì 50 metri dagli indiani. Vidi anche sventolare una bandiera bianca. Quando le truppe spararono, gli indiani scapparono, alcuni uomini corsero nelle loro tende, forse a prendere le armi... Penso che vi fossero seicento indiani in tutto. Ritengo che vi fossero trentacinque guerrieri e alcuni vecchi, circa sessanta... il resto degli uomini era lontano dal campo, a caccia... Dopo l'inizio della sparatoria i guerrieri misero insieme le donne e i bambini e li circondarono per proteggerli. Vidi cinque squaws nascoste dietro un cumulo di sabbia. Quando le truppe avanzarono verso di loro, scapparono fuori e mostrarono le loro persone perché i soldati capissero che erano squaws e chiesero pietà, ma i soldati le fucilarono tutte. Vidi una squaw a terra con un gamba colpita da un proiettile; un soldato le si avvicinò con la sciabola sguainata; quando la donna alzò un braccio per proteggersi, egli la colpì, spezzandoglielo; la squaw si rotolò per terra e quando alzò l'altro braccio, il soldato la colpì nuovamente e le spezzò anche quello. Poi la abbandonò senza ucciderla. Sembrava una carneficina indiscriminata di uomini, donne e bambini. Vi erano circa trenta o quaranta squaw che si erano messe al riparo in un anfratto; mandarono fuori una bambina di sei anni con una bandiera bianca attaccata a un bastoncino; riuscì a fare solo pochi passi e cadde fulminata da una fucilata. Le squaw rifugiatesi in quell'anfratto furono poi uccise, come anche quattro o cinque indiani che si trovavano fuori. Le squaw non opposero resistenza. Tutti i morti che vidi erano scotennati. Scorsi una squaw sventrata con un feto, credo, accanto. Vidi il corpo di Antilope Bianca privo degli organi sessuali e udii un soldato dire che voleva farne una borsa per il tabacco. Vidi una squaw i cui organi genitali erano stati tagliati... Vidi una bambina di circa cinque anni che si era nascosta nella sabbia; due soldati la scoprirono, estrassero le pistole e le spararono e poi la tirarono fuori dalla sabbia trascinandola per un braccio. Vidi un certo numero di neonati uccisi con le loro madri. »

Tenente James D. Cannon, cavalleria del Colorado.

«Tornato sul campo di battaglia non vidi un solo corpo di uomo, donna o bambino a cui non fosse stato tolto lo scalpo, e in molti casi i cadaveri erano mutilati in modo orrendo: organi sessuali tagliati a uomini, donne e bambini; udii un uomo dire che aveva tagliato gli organi sessuali di una donna e li aveva appesi a un bastoncino; sentii un altro dire che aveva tagliato le dita di un indiano per impossessarsi degli anelli che aveva sulla mano; per quanto io ne sappia il colonnello John M. Chivington era a conoscenza delle atrocità che furono commesse e non mi risulta che egli abbia fatto nulla per impedirle; ho saputo di un bambino di pochi mesi gettato nella cassetta del fieno di un carro e dopo un lungo tratto di strada abbandonato per terra a morire; ho anche sentito dire che molti uomini hanno tagliato gli organi genitali ad alcune donne e li hanno stesi sugli arcioni e li hanno messi sui cappelli mentre cavalcavano in fila».

Maggiore Scott J. Anthony, cavalleria del Colorado, comandante di Fort Lyon. Prima negò, poi ammise di aver visto molti corpi mutilati,

«C’era un bambino, avrà avuto tre anni, che camminava sulla sabbia… Un uomo smonta da cavallo, impugna il suo fucile e spara, manca il bambino. Arriva un altro uomo e dice: “Lasciami provare, quel figlio di puttana, lo prendo io”… ma lo manca. Arriva un terzo uomo, dice qualcosa di simile e spara. Il piccolo cade».

Dalla deposizione davanti alla commissione d’inchiesta sui fatti del 29 novembre 1864 dell’interprete John S. Smith che, al momento dell’attacco, era nel villaggio cheyenne.

«Domanda. Le donne e i bambini furono massacrati indiscriminatamente oppure solo quando stavano dalla parte dei guerrieri?

Risposta. Indiscriminatamente

D. Ci furono atti di barbarie commessi in quel luogo che lei osservò in prima persona?

R. Sissignore. Vidi i cadaveri di coloro che erano stati fatti a pezzi, mutilati in un modo che non avevo mai visto prima, donne tagliate a pezzetti.

D. Tagliate come?

R. Con coltelli, scorticate, il cervello estratto dal cranio, bambini di due o tre mesi che giacevano lì, gente di tutte le età, dai poppanti ai guerrieri adulti.

D. Li vide commettere quegli atti?

R. Sissignore. Vidi la gente cadere a terra.

D. Cadere quando venivano uccisi?

R. Sissignore.

D. Li vide mentre venivano mutilati?

R. Sissignore.

D. Chi era che li mutilava?

R. I soldati degli Stati Uniti».
 

Capitano Silas S. Soule, cavalleria del Colorado, assassinato per la strada, a Denver, il 24 aprile 1865, dopo la sua testimonianza davanti alla commissione. A Sand Creek si era rifiutato di sparare e per questo era stato arrestato.

«È stato duro per me vedere fanciullini che supplicavano in ginocchio di avere salva la vita, e che poi cadevano come cani con il cervello spappolato».

Quella mattina da una parte c’erano novecento soldati americani guidati dal colonnello John M. Chivington, dall’altra qualche centinaio di Cheyenne e Arapahoes. Le cifre più attendibili parlano di circa 150 indiani uccisi, più di cento erano donne e bambini. Nove i soldati che persero la vita.

E’ il massacro di Sand Creek, una delle pagine più buie della storia americana. Non lo fermò la pietà umana. E nemmeno due bandiere.

È il massacro che fece scrivere a Fabrizio De André una delle sue più belle canzoni: «Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura / sotto una luna morta piccola/ dormivamo senza paura / fu un generale di vent'anni / occhi turchini e giacca uguale / fu un generale di vent'anni / figlio d'un temporale..../ ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek».

Pentola Nera, in un primo momento, viene dato per morto. Ma riesce a sopravvivere, raduna i sopravvissuti, salva la moglie ferita e, dopo un anno, continua a cercare la pace, a trattare con gli uomini bianchi.

«Siamo pronti a dimenticare tutto e a parlare con voi pacificamente, nonostante i vostri soldati ci abbiano assaliti. Vi tendo ancora la mano... La mia gente è felice che sia tornata la pace e di poter quindi dormire tranquilla...».

Quattro anni dopo il massacro di Sand Creek Pentola Nera è accampato, con la sua gente, a Washita, nell’Oklahoma occidentale. In un’altra fredda alba invernale, il 27 novembre 1868, vede il suo popolo attaccato ancora dalle giacche blu. Questa volta sono 500 soldati del Settimo Cavalleria comandati dal colonnello George A. Custer. Per il vecchio capo è l’ultima battaglia: viene ucciso insieme alla moglie.

Ma per i discendenti degli Cheyenne del Sand Creek e per tutti gli indiani d’America le bandiere che Pentola Nera aveva alzato all’alba del 29 novembre 1864 non hanno mai smesso di sventolare continuando a lanciare il loro messaggio di pace.

Il messaggio viene raccolto nel 2000, come se lo sventolio della Trentatre stelle e del drappo bianco avesse impiegato 136 anni per raggiungere il suo scopo. Il congresso americano chiede scusa agli indiani e approva una legge che riconosce il valore storico del luogo del massacro di Sand Creek. Vi si afferma che venne attaccato «un pacifico villaggio», che vennero uccisi «donne, bambini e anziani», che i soldati commisero «atrocità» e che Sand Creek è un simbolo degli eccessi raggiunti «in 500 anni di lotta, tra i Nativi americani e i popoli europei e non, per la terra che oggi costituisce gli Stati Uniti».

Nota

Questo testo doveva essere un capitolo di una ricerca (fermatasi a metà strada) sull'uso delle bandiere nella storia
Pagina 1 di 4